IL RISVEGLIO
LA STRADA CHE MI HA PORTATO A ME STESSA
Come si perviene, senza saperlo, lì dove si è sempre stati? Come avviene che dal disorientamento scaturisca la chiarezza, dalla paura del dolore la libertà di vivere i propri sentimenti? Come accade che da mucchi di parole vuote emergano i fatti nella loro semplicità, dalla continua fuga da se stessi la capacità di vivere con se stessi, dalla cecità la facoltà di vedere, dalla, sordità quella di ascoltare, dall'indifferenza la simpatia, dal crimine commesso per ignoranza il consapevole senso di responsabilità? Come si passa dalla voglia di uccidere alla serenità, dalla tensione alla quiete, dall'autodistruzione alla protezione di se stessi, dall'autoestraniarsi a un senso di sicurezza? Sono tutte cose che non accadono per forza di volontà o in virtù di prediche, né con l'aiuto di teorie e men che meno con l'ausilio di medicine. La forza di volontà può portare solo a un irrigidimento maggiore, il moralismo a un rifiuto più raffinato della realtà, e le medicine e le droghe possono solo contribuire a rendere inconoscibili per sempre le cause del dolore, a far sì che la chiave della verità divenga introvabile.
Circa quindici anni fa Arthur Janov ha dato una risposta a tutte queste domande quando ha detto: «Basta provare le sofferenze che sono alle nostre origini e scoprire i bisogni primari. » Non è una risposta sbagliata, anche se non è esauriente, nel senso che non è abbastanza precisa. Non informa nemmeno come si può arrivare a provare le sofferenze delle nostre origini. Ma non è per questa ragione che la risposta di Janov è stata irrisa e affatto considerata dalla maggior parte degli addetti ai lavori. La ragione sta semmai nel fatto che si tratta d'una risposta scomoda. A molti infatti appare più semplice ingoiare medicine, fumare, bere alcolici, predicare, educare gli altri, sottoporre a cure il prossimo, preparare guerre, piuttosto che esporsi alla propria dolorosa verità.
Neanche per me è stato facile. Dipingendo mi sono trovata sulla strada che portava alla mia storia, e non ho voluto assolutamente tornare indietro. Fin qui m'era tutto chiaro. Eppure mi sono trovata dinanzi a una barriera. Volevo sapere cos'era successo nella mia prima infanzia, ma non disponevo degli strumenti necessari per arrivarci. Gli studi fatti per diventare una psicoanalista non hanno potuto aiutarmi. Il ricorso alle libere associazioni d'idee non faceva che mantenermi chiusa nel recinto del rifiuto mentale, nella cerchia dei miei pensieri, delle supposizioni e delle ipotesi, la cui verifica m'era negata perché i sentimenti bloccati m'impedivano di accostarmi alla realtà. Ho letto i libri di Arthur Janov, ho intuito che quest'uomo aveva trovato una fondamentale via d'accesso alle esperienze rimosse, eppure è continuato a mancarmi qualcosa che non ero, allora, ancora in grado di definire. Janov, in Grido primordiale, descrive come uno dei suoi pazienti abbia improvvisamente cominciato a torcersi di dolore quando gli è stato proposto di immaginare suo padre e di parlare senza infingimenti. Avendo letto quello che c'era da leggere sulla psicologia della Gestalt, encounter, le terapie reichiane e di bioenergetica, quella scoperta non mi è risultata del tutto nuova, però il problema di riconnettersi alle prime sofferenze della propria esistenza mi è parso risaltare in Janov molto meglio che in tutte le altre forme di terapia. Mi ha affascinata, e ho intravvisto che la possibilità di rivivere eventi rimossi può portare all'eliminazione di sintomi. Però — mi sono chiesta — come arrivare a quelle esperienze? Occorre proprio andare a Los Angeles, da Janov? Se Janov — ho pensato — ha davvero scoperto una verità universalmente valida, allora la stessa regola che si svela nei racconti dei suoi pazienti dovrebbe potersi rintracciare anche in me, dovrei poterla scoprire anche dentro me stessa. Ma come trovare una persona che mi aiutasse a farlo senza irritarmi con propositi pedagogici, sia pure inconsapevoli?
Mi sono messa alla ricerca di questa persona e ho parlato con moltissimi terapeuti dell'età primaria, in diversi paesi. E ho constatato che ce n'erano già molti in grado di trasferire i loro pazienti in quello stato di profonda disperazione, di disorientamento e di paura che è caratteristico della prima infanzia. Questa parte della tecnica escogitata da Janov s'è diffusa con la velocità del vento. Ma poiché da sola non basta, poiché questa non è ancora una terapia ma soltanto una parte di essa, si sono anche constatati in breve tempo i pericoli insiti in queste energie improvvisamente scatenate. L'esperienza delle lontane sofferenze funge sì da sollievo a livello fisico, ma se non si compiono gli ulteriori, specifici e necessari passi sugli altri livelli, le sofferenze delle origini non si dissolvono. Molti pazienti sono così rimasti in uno stato di perpetuimi mobile. S'aggiunga poi questo: quando i terapeuti si sono dimostrati "incapaci di controllare le realtà che emergevano, sono intervenuti con tutta la gamma degli espedienti suggeriti dalla loro stessa educazione per preservare i pazienti dal minaccioso pericolo del suicidio o della psicosi. Nel disorientamento in cui si sono trovati, hanno cominciato a combinare la loro terapia primaria coll'analisi transattiva, se non addirittura con concetti psicoanalitici o argomentazioni religiose, sino a ricostituire a spese della verità — e stavolta definitivamente — un apparato di difesa demolito troppo in fretta. Comprensibilmente, i pazienti così trattati si sono sentiti indotti, a loro volta, a mettersi precipitosamente a manipolare i sentimenti altrui al fine di sottrarsi al proprio disorientamento e all'irrisolto caos di sensazioni insorto dentro di loro. La possibilità di calarsi rapidamente nel dolore altrui e di definire tutto questo terapia può anche trasformarsi in una lecita via di sfogo di istinti sadici repressi.
S'aggiunga poi che c'erano degli individui che non si presentavano affatto come dei terapeuti, ma si spacciavano apertamente per guru, e sfruttavano la scoperta di Janov per procurarsi, attraverso la manipolazione del prossimo, molto seguito e molto denaro. Una volta confrontati coi loro sentimenti, i seguaci ne divenivano dipendenti e restavano a lungo soggetti a quell'unico guru che sapeva renderglieli possibili. E l'interesse di quest'ultimo consisteva nel non interrompere lo stato di soggezione per non rinunciare alla sua fonte di potere.
Tutte queste osservazioni mi hanno resa diffidente nei confronti della terapia primaria. Non che abbia corso il pericolo di farmi impressionare da suggestioni pedagogiche o di unirmi a una setta. Ma avevo la sensazione — finché non avessi trovato un terapeuta primario che avesse un concetto terapeutico chiaro, convincente e conforme alle mie cognizioni — di potermi cacciare in un vicolo cieco, a meno che non avessi trovato io stessa una via d'uscita dalla confusione dei sentimenti.
Per me un'autentica terapia comporta sempre una crescente indipendenza, ed era una possibilità che intravvedevo nei racconti dei pazienti di Janov. Di conseguenza, non riuscivo a spiegarmi perché molti di questi suoi pazienti si unissero a delle sette. Non riuscivo a capire come un individuo che avesse imparato a sentire se stesso e a capire la propria storia, potesse ridiventare strumento di interessi estranei. D'altra parte non potevo negare i fatti. Parlavano dunque contro la terapia? Oppure era incompleta la terapia di Janov? Qual era il tassello mancante? Poteva darsi che la tecnica di liberare i sentimenti fosse apprendibile e comunicabile, ma che questo fosse ben lungi dal bastare? Poteva darsi che il successo della terapia continuasse a dipendere dal fatto che il paziente fosse o meno in grado di sopportare la verità — pur affiorante ora nei suoi sentimenti — dei maltrattamenti subiti in passato? Infatti, provare qualcosa sul momento, intuire qualcosa per breve tempo o addirittura comprenderlo solo a livello razionale non significa ancora affatto saper sopportare la verità nel lungo periodo e introiettarla. Constatando quanti terapeuti negavano ancora la verità dei maltrattamenti inflitti ai bambini, potevo anche pensare che una parte importante della risposta che cercavo risiedesse proprio in una simile questione. Forse l'ex bambino maltrattato, incoraggiato a rivivere i sentimenti di allora, è poi costretto a cercar rifugio in una setta quando riscopre il terrore provato in passato e non ce la fa a sopportare da solo questa verità.
Perché un paziente non si sottragga più alla realtà che affiora dalle sue sofferenze, perché possa liberarsi dei sensi di colpa che lo bloccano, ha bisogno di un ambiente che stia incondizionatamente e senza riserve dalla parte del bambino. Io non sono riuscita a trovare quest'ambiente, da nessuna parte, nemmeno presso i terapeuti primari che ho incontrato allora. Mi sono trovata di fronte a persone dalle formazioni più disparate le quali, non appena io parlavo dell'innocenza del bambino e della colpa dei genitori, scoprivano prima o poi un pretesto per difendere i genitori.
In un primo tempo non sono quasi riuscita a concepire la prospettiva di dover restare sola con ciò che avevo intuito, pur sapendo benissimo che questa intuizione poteva fornirmi l'accesso alla verità. Ho pensato: se tutti sono d'accordo nel dire che ci si può liberare dei sintomi solo perdonando i genitori, come posso essere sicura di non ingannarmi? Tutte quelle persone messe insieme dovevano pur avere esperienze molto maggiori delle mie...
La chiave per sottrarmi ai dubbi mi è stata fornita dal ricordo, appena riaffiorato in me, del terrorismo pedagogico di mia madre. Ho compreso che l'alleanza fra i terapeuti non scaturisce dalle loro esperienze, ma dalla loro educazione, e che il perdono, da tutti loro concordemente preteso con tanta naturalezza, è da rifiutare senza riserve, perché comporterebbe necessariamente il fallimento di ogni terapia. Nel corso delle molte discussioni di gruppo che ho diretto su questo tema, quasi tutti i terapeuti non riuscivano a sottrarsi all'idea che occorre perdonare i genitori per liberarsi dei sintomi. E se poi le mie controdeduzioni risultavano persuasive, arrivavano a dire, tutt'al più, che non avrebbero più direttamente preteso questo perdono, ma avrebbero indirettamente fatto capire al paziente che «si sarebbe sentito meglio» se fosse riuscito a perdonare. Non s'accorgevano di compiere in tal modo una manipolazione pedagogica, e questo per uno scopo asservito alla morale tradizionale e non all'interesse del paziente che è stato in passato un bambino ferito e che deve ora accostarsi alla causa prima dei traumi subiti. Il paziente non approderà alla consapevolezza di quanto gli è accaduto fino a quando non capirà che la morale imposta dai genitori era negatrice e distruttrice di vita. Quando i terapeuti si alleano con questa morale, si addossano anche l'eredità dei pedagoghi che si sono schierati sempre dalla parte degli adulti e contro il bambino. Rafforzano cioè l'effetto nefasto dell'educazione e poi lo mascherano, definendo 'terapia' la loro attività.
È ovvio che tutti i genitori di questi pazienti volevano che fossero loro perdonate le crudeltà che commettevano. Il bambino se ne rendeva perfettamente conto e la sua principale preoccupazione era di esaudire questo desiderio per rabbonire i genitori. La conciliazione era poi resa possibile dalla rimozione dei sentimenti. Ma il prezzo da pagare rimaneva ignoto, perché non c'è stata, per tanto tempo, la connessione fra rimozione e sintomi.
Poiché anche i genitori sono stati in passato indotti a perdonare, ritengono ovvio che i figli debbano fare altrettanto. Lo considerano un diritto, e i bambini si sentono colpevoli, cattivi e condannati se la sera vanno a letto risentiti nei confronti dei loro genitori. Poiché nelle passate generazioni quasi ognuno ha fatto questa fondamentale esperienza, si può anche comprendere come mai i terapeuti, in tutto il mondo, pretendano con tanta insistenza che i loro pazienti perdonino i genitori.
Ho già spiegato gli svantaggi di questa pretesa in // bambino inascoltato, ma nel frattempo ho capito ancora meglio i perìcoli insiti in questa impostazione. Fino a quando il campo delle terapie è stato dominato dalla psicoanalisi e ai pazienti non era nemmeno consentito di accostarsi ai loro sentimenti, neanche le pretese pedagogiche hanno avuto effetti pericolosi, poiché rimanevano circoscritte all'ambito della razionalità e non erano quindi impegnative. Con lo sviluppo delle moderne forme di terapia si sono però ridestati i sentimenti in precedenza bloccati dei pazienti, e si sono liberate delle energie. E non è possibile guidare efficacemente i pazienti alla scoperta di questi sentimenti e alla loro liberazione fino a quando il sostrato morale di queste terapie rimane la pretesa pedagogica di perdonare i genitori subito dopo le esplosioni di risentimento solo momentaneamente consentite ai pazienti.
Ho sentito dire d'un uomo che, a conclusione d'una simile terapia, aveva finalmente 'perdonato tutto' al padre sadico, e che però poi, due anni dopo, ha improvvisamente e inspiegabilmente ucciso un innocente. Questa informazione ha rafforzato le mie supposizioni: quando nel corso d'una terapia una persona acquisisca la capacità di esperire i propri sentimenti, si trova nella condizione di poter cogliere e sentire sempre di più, e non sempre di meno, tutto quello che le è accaduto nell'infanzia e che allora non le era stato permesso di percepire consapevolmente. Grazie alla crescente familiarità con i propri sentimenti e con la propria storia, può capitare, anche dopo anni, che riemerga una nuova esperienza che all'epoca della terapia intensiva non era stata ancora accessibile. Ma se a questo punto la persona in questione si trova nella condizione di non potersi consentire il risentimento che si sta risvegliando, poiché ha ormai perdonato tutto ai genitori nel corso della terapia, questa persona corre il pericolo di rivolgere il risentimento contro altri. Dal momento che io intendo per terapia la scoperta sensoria, emozionale e mentale della verità un tempo rimossa, guardo alla pretesa morale di pervenire a una conciliazione coi genitori come a un blocco, a un'inevitabile paralisi del processo terapeutico.
Ho compilato un'intera lista di principi pedagogici che pretendono di spacciarsi per interventi terapeutici, desumendoli dalle lettere dei lettori e da relazioni orali. In parte provengono da persone che si sono sottoposte a trattamenti analitici per periodi che vanno perfino dai quindici ai vent'anni, persone che si trovano ora in uno stato di massima angoscia e mi chiedono indirizzi di «psicoanalisti non pedagogici». Tragicamente, lo fanno senza tener conto di un'opinione che ho spesso espresso, e cioè che la psicanalisi in quanto tale si è arenata nel modo di pensare pedagogico. Molto spesso, nei racconti, si trovano le seguenti asserzioni fatte dagli analisti:
- È stata certo un'esperienza dura per lei, ma ormai sono cose così lontane nel tempo!... Non le pare che sia venuto il momento di perdonare?
- Il risentimento non le fa bene, le avvelena la vita e non fa che protrarre il suo stato di dipendenza dai genitori. Solo quando sarà capace di riconciliarsi coi suoi genitori, potrà anche liberarsi da loro.
- Cerchi di considerare anche gli aspetti positivi della situazione: quei genitori che lei ora definisce malvagi non le hanno forse pagato gli studi? Non le pare di essere ingiusto?
- Io non voglio costringerla a perdonare, però lei non troverà pace finché rimarrà così implacabile, finché non avrà perdonato.
- Non si guarisce incolpando il prossimo, bisogna anche considerare la responsabilità del bambino.
- Il bambino non è vittima, ma partner di un processo interattivo.
- Suo padre in passato, è stato severo con lei, certo, ma solo perché aveva preteso troppo da se stesso e perché era già malato; però era animato da buone intenzioni e le voleva bene.
- Un bambino non può apprendere le regole indispensabili senza punizioni, senza dinieghi e senza che gli siano posti dei limiti precisi, altrimenti crescerebbe senza freni, addirittura abbandonato a se stesso.
- Anche i genitori sono esseri umani, non si può pretendere che siano esenti da errori.
Questa elencazione contiene solo pochi esempi, e la si potrebbe estendere all'infinito. Tutte queste asserzioni hanno in comune la caratteristica d'essere fuorvianti e non vere, e di essere però considerate generalmente vere perché tali sono giudicate da sempre. Il bambino è stato costretto a credere che certe crudeltà gli sono state inflitte per il suo bene, e più tardi, da adulto, non sarà spesso capace di riconoscere la falsità di questa concezione, specialmente se è fuorviato da persone per le quali prova simpatia, che risvegliano in lui delle aspettative e che parlano lo stesso linguaggio pedagogico al quale è abituato fin da piccolo. Perché è chiaramente falso che i traumi remoti non continuino ad affliggere l'individuo. L'oblio aiuta il bambino a sopravvivere ma non il paziente adulto a liberarsi delle proprie sofferenze. Il bambino è una vittima inerme e non un partner con uguali diritti d'un processo interattivo. L'odio rimosso e inconsapevole ha effetti distruttivi, mentre l'odio esperito non è un veleno, ma una delle vie per uscire dalla trappola delle distorsioni, delle ipocrisie e delle tendenze distruttive. E si guarisce — si guarisce davvero — solo se si smette di risparmiare i responsabili delle violenze addossandosi dei sensi di colpa, se si osa finalmente guardare e sentire cosa hanno fatto. Fino a che punto può arrivare la pretesa che un bambino si autocolpevolizzi si desume da questo esempio: un uomo di quarant'anni, membro rispettato e apprezzato d'una setta, ha picchiato per un'ora il figlio di due anni perché il bambino non voleva chiedere 'scusa'. Interrogato in seguito, per capire come mai non si era accorto che il bambino, sanguinante, era già morto da un pezzo, ha risposto che avrebbe potuto smettere di picchiarlo solo se il bambino si fosse scusato, perché un bambino, quando arriva al cospetto di Dio, deve aver imparato a chiedere 'scusa'. La lezione che questo padre, da bambino, aveva appreso dai suoi genitori si è dimostrata incomparabilmente più efficace della vista del proprio figlio morente (cfr. A. Miller, 1988 a, cap. 6). Man mano che mi sono resa conto che molti degli odierni terapeuti proteggono il sistema pedagogico dei loro genitori a scapito del paziente, si è accentuata in me la sfiducia nei confronti delle terapie ed è diminuita la speranza di trovare prima o poi una conferma piena di ciò che avevo già riconosciuto come vero. In quel periodo di sconforto mi è capitato fra le mani il libro Età della pietra di Mariella Mehr, e ne sono stata colpita (M. Mehr, 1980). Questa donna mostrava di essere nella condizione di poter risalire ad esperienze molto precoci, di riviverle, di sopportarne la verità: e aveva scritto un libro senza pretese pedagogiche, senza menzogne, senza abbellimenti, senza i soliti moralismi, ben consapevole della tremenda verità della sua infanzia. Avevo appena concluso la stesura di // bambino inascoltato e ho dedicato le ultime pagine del libro all'esperienza di Mariella Mehr. Solo in seguito mi sono informata sull'identità del suo terapeuta e mi sono messa in contatto con lui. Mi ha spiegato il suo metodo e ho deciso di verificare la sua tecnica su me stessa; e questo perché la concezione di Konrad Stettbacher teneva conto di tutto quello che negli ultimi anni avevo constatato come vero.
Sono passati quasi cent'anni da quando Sigmund Freud ha prima scoperto nei sintomi delle sue pazienti e dei suoi pazienti le conseguenze di traumi infantili rimossi, e poi ha rinnegato questa sua scoperta. Sandor Ferenczi ha riscontrato cinquantanni dopo lo stesso fenomeno, però è morto prima di poter elaborare un metodo terapeutico basato su questa constatazione. Qualcosa di simile e per le stesse ragioni è capitato altri trent'anni dopo a Robert Fliess. Entrambi sono rimasti comunque chiusi nella prigione dei concetti psicoanalitici. Sono bensì riusciti a spalancare una finestra e a guardar fuori, sono stati capaci di vedere nei loro pazienti la situazione del bambino maltrattato, però non sono stati in grado di uscire dalla prigione — fatta di ripulse mentali — che essi stessi si erano eretta attorno, e di sviluppare quindi un concetto terapeutico praticabile.
Circa ottant'anni dopo la scoperta di Freud, Arthur Janov ha osservato nei suoi pazienti che il riaffiorare delle sofferenze bloccate portava al dissolvimento delle rimozioni e alla consapevolezza dei lontani traumi patiti: e questo comportava stupefacenti miglioramenti a livello sintomatico. Janov ha bensì definito terapia primaria il mero rivivere delle sensazioni primarie, senza tuttavia elaborare un concetto terapeutico e senza spiegare mai in che modo il lettore dei suoi scritti, in quanto persona bisognosa d'aiuto, può arrivare a rivivere le sofferenze bloccate. A leggere i suoi scritti, si ha a volte l'impressione che la persona in cerca d'aiuto debba esporsi a una specie di stupro da parte del terapeuta. La prassi ha poi anche mostrato che le sofferenze rievocate in queste condizioni potevano bensì avere un effetto di sollievo, ma non bastavano ancora per dissolvere i modelli mentali e di comportamento distruttivi e autodistruttivi.
La soluzione di questo compito è riuscita allo psicoterapeuta svizzero Konrad Stettbacher. Dev'essere dipeso dal fatto che non si è accontentato, come Freud, Janov e molti altri, di sottoporre a cure dei pazienti, di osservarli e descriverli, ma ha voluto saggiare su se stesso, sulla propria vita, il metodo dell'accesso ai propri traumi — un metodo sviluppato nell'arco di molti anni — e di applicarlo con coerenza. Solo quest'accostarsi di persona alle proprie esperienze gli ha aperto gli occhi sulla portata della devastazione che viene inflitta, per insipienza, al bambino. Perché solo quando si comincia a intuire tutto questo coll'apparato sensorio del bambino che è ancora in noi, con ciò che questa vittima sa, ci si può liberare dell'inconscia identificazione con le azioni distruttive dei genitori e si può interrompere la catena della ripetizione coatta. Perché è solo a questo punto che si osano condannare sul serio e inequivocabilmente quelle azioni. La semplice osservazione di un paziente, per sincera che sia e animata da buone intenzioni, non preserva infatti dal continuare ad applicare su di lui — e senza che uno se ne accorga — dei modelli pedagogici. Se non ci mettiamo nella condizione di rivivere coscientemente gli effetti che questi modelli hanno a suo tempo provocato in noi, continuiamo a subirli sconsideratamente, proprio come Freud e tanti altri suoi famosi epigoni, che non sono mai andati al di là della distaccata osservazione intellettuale delle angosce risalenti all'infanzia. È un'esperienza che ho fatto anch'io, innumerevoli volte, su me stessa e su altri.
Fatta eccezione per quello che risulta dai documenti propri del metodo terapeutico praticato da Konrad Stettbacher, non conosco altra descrizione sistematica della terapia primaria. In occasione d'una visita che ho fatto nel 1985, a Parigi, all'Istituto per la terapia primaria, ho cercato di parlarne a Janov. Ha motivato le lacune concettuali dei suoi libri con la preoccupazione che si possa abusare di questa forma di trattamento, e ha sostenuto — coerentemente con questa preoccupazione — che solo gli allievi da lui stesso formati siano autorizzati a praticarla. Io non ritengo tuttavia che un metodo terapeutico possa essere mantenuto riservato con misure di carattere autoritario. È la precisa e accurata descrizione, fatta in modo tale da orientare bene il lettore, che può semmai trattenere potenziali pazienti e terapeuti dall'abuso. E può aiutarli a sottrarsi all'ignoranza dei terapeuti-pedagoghi che non sanno quello che fanno.
L'assenza di una concezione verificabile della terapia primaria si è dimostrata molto pregiudizievole per i pazienti, perché non ha impedito e, semmai, ha incoraggiato tentativi d'applicazione caotici e pericolosi. Le modalità di accesso alle sofferenze primarie e la possibilità di dissolverle attraverso la percezione dei propri bisogni devono essere descritte esattamente, anche in funzione dell'autonomia della persona in cerca d'aiuto. E soprattutto: non è quasi possibile trovare spontaneamente quest'accesso senza l'assistenza di una guida, perché in ogni individuo persiste una forte resistenza a rivivere angosciose esperienze primarie. Il paziente e il futuro terapeuta possono invece imparare, con l'aiuto di una guida, a superare gradualmente questa resistenza, anziché infrangerla violentemente. Nel corso degli studi che ho fatto per diventare psicoanalista si parlava molto del fenomeno della traslazione — del transfert — e la prassi mi ha poi confermato l'importanza del fenomeno. Ho continuamente riscontrato che, nell'esigenza e nella capacità di un individuo di trasferire le sensazioni rimosse nella prima infanzia su persone con cui entri più tardi in relazione, è insito un elevato potenziale terapeutico, che non è stato quasi mai colto dalla psicoanalisi in tutta la sua portata. Dei fenomeni di transfert si è inoltre molto abusato in funzione dell'esercizio del potere da parte dell'analista e per mettere il paziente in uno stato di soggezione. Già Sigmund Freud e, dopo di lui, migliaia di suoi successori hanno spiegato ai loro pazienti perché facevano, dicevano, sentivano questa o quell'altra cosa; perché odiavano, desideravano, disprezzavano, invidiavano l'analista, ed erano davvero convinti di saperlo (cfr. A. Miller, // bambino inascoltato, pagg. 55-60). Benché le loro spiegazioni fossero desunte dalle teorie apprese, dall'apparato critico e dalla formazione stessa dell'analista, e non avessero spesso assolutamente nulla a che fare con la vita effettiva del paziente, gli analizzandi credevano loro sulla parola, come i fedeli credono al sacerdote (cfr. A. Miller, 1988 a, cap. 7). Non sapevano di avere il diritto e la possibilità di essere accompagnati invece alla ricerca dei loro autentici sentimenti, tanto da poter trovare essi stessi le spiegazioni esatte di questo loro sentire.
Quando infatti non si tratta più di dimostrare, mediante il transfert, l'esistenza di presunte innate tendenze distruttive, e quando l'obiettivo consiste invece nel far sì che il paziente senta emotivamente quali concreti fatti passati lo hanno turbato, e li senta al punto tale da metterlo nella condizione di esprimerli verbalmente in tutte le necessarie sfaccettature, allora si aprono possibilità completamente nuove e finora impensate di sfruttare il cosiddetto transfert per scopi terapeutici.
Perché è assai raro che il paziente possa cogliere e percepire nei ricordi diretti la miseria della sua infanzia. I ricordi sono o completamente banditi, sprofondati nell'amnesia, oppure separati dai sentimenti, emozionalmente inaccessibili e quindi di poco aiuto. Invece la storia reale del paziente trapela dal modo in cui si comporta verso le persone con cui è attualmente in relazione: comprese quelle di secondaria importanza.
Stettbacher dimostra nella sua terapia come queste piccole e grandi forme quotidiane di traslazione possono essere sistematicamente sfruttate ai fini terapeutici. Poiché la storia dei precoci traumi irrisolti tende a voler essere raccontata e finalmente ascoltata, continua a rimanifestarsi nei modi più diversi. Affiora in occasione di singole sollecitazioni, sotto aspetto ancora mascherato, ma con stupefacente precisione. La forma cifrata è decifrabile quando i nuovi modi in cui si manifesta possano essere rivissuti assieme ai corrispondenti sentimenti. Nel corso di questo processo non occorre nemmeno che il terapeuta sia l'oggetto principale del transfert, perché non spetta solo a lui il compito di controllare questo lavoro, come di solito avviene nel corso dell'analisi. La crescente autonomia del paziente gli consente, grazie agli strumenti che gli sono offerti, di controllare e risolvere egli stesso le sue traslazioni. Egli è, in ogni momento, nella condizione di cogliere i sentimenti riemergenti nei rapporti con la persona con cui si trova via via in relazione, di confrontarsi con essa dentro di sé, di metterla in discussione e di comunicarle i propri bisogni. Può — ma non deve necessariamente — capitare che il terapeuta, col suo comportamento reale, smuova nel paziente dei sentimenti di cui questi debba farsi carico. Anche il terapeuta, come qualsiasi altra persona, può sollecitare il riaffiorare di , passate sensazioni. Tuttavia il terapeuta non rimane l'unica I persona su cui si affiggono in continuazione i sentimenti del paziente, come avviene invece nella pratica psicoanalitica. Il terapeuta è piuttosto l'accompagnatore che aiuta il paziente a orientarsi fra i sentimenti che si sono ridestati in lui, ad affrontare le proprie paure e ad articolare i propri bisogni. Talora potrà capitare che debba preservare l'ex bambino maltrattato dall'avventarsi su se stesso o sugli altri, per effetto dell'antica l'disperazione, ora, per la prima volta, consapevolmente rivissuta. Così il ruolo del transfert, nella terapia primaria di Stettbacher, è meno rilevante che nella psicoanalisi: solo per quel che I riguarda la persona del terapeuta però. Sotto il profilo del vantaggio terapeutico che ne trae il paziente, il fenomeno è invece incomparabilmente maggiore, più completo e preciso di quanto sia mai avvenuto nell'intero arco d'evoluzione della psicoanalisi. S'aggiunga che questo fenomeno è posto interamente al 'servizio del paziente, il quale lo può elaborare per soccorrere se 'Stesso. Può sfruttare i suoi sentimenti traslati per approfondire i la conoscenza di se stesso e non è messo nella condizione di doversene vergognare. La terapia di Stettbacher — la cui concezione purtroppo 'non è ancora disponibile sotto forma di libro: ma è una lacuna cui si rimedierà presto — si sottrae al pericolo dell'abuso grazie 1 alla propria trasparenza. Non ha il fascino sociale che potrebbe indurre dei terapeuti ambiziosi ad addestrarsi al suo impiego in § funzione del proprio prestigio. Non seduce con quell'esclusiva appartenenza di gruppo che è poi veicolo di potere sociale. Non fa che offrire la verità, vale a dire l'occasione dell'incontro col proprio passato: quell'incontro al quale si è cercato in ogni modo e a ogni costo di sottrarsi. Gli strumenti impiegati sono teoreticamente verificabili, la terapia non implica l'esistenza di misteri o segreti, e può essere appresa e praticamente saggiata da chiunque intenda aiutare se stesso, che sia animato dalla volontà di imparare a conoscere la propria infanzia. Ognuno la può applicare in modo creativo, adeguato alla propria situazione e alle proprie possibilità. Non esistono costrizioni, né rituali che assicurino il potere al terapeuta e che si debbano seguire passivamente. Esistono soltanto, esposti in chiare linee, gli obiettivi e i mezzi. L'obiettivo è quello di rivivere e comprende-
re i traumi (maltrattamenti e stati di abbandono) patiti nell'infanzia. E a questo s'arriva rivivendo le sofferenze primarie e liberandosi dalle reazioni distruttive e autodistruttive latenti. L'accesso alle esperienze primarie, partendo dalle singole 'sollecitazioni' e arrivando fino al presente, conduce a un concreto confronto interiore. Il sollievo avviene percorrendo i quattro passi che tento di illustrare, sulla base di un esempio, nel capitolo n, 3. Però fra le condizioni perché la terapia abbia successo c'è anche questa: che vi sia una persona in grado di assumersi quel ruolo di testimone consapevole che è finora mancato. I tratti essenziali della terapia sono i seguenti: nessuna mistificazione, nessun archetipo, nessun fantasma, nessuna magia, nessun guru, solo la dolorosa strada che porta ai fatti, alla rinuncia alla cecità, al rifiuto delle illusioni, delle inutili protesi, dell'autoinganno e del disorientamento. Il compenso di tanta fatica è il grande sollievo conferito dalla chiarezza: questi sono i fatti, non devo più illudermi, non devo più farmi confondere, non devo più reprimere quello che so; mi è consentito di vedere, vivere, respirare, comunicare e non mi si può più impedire di conoscere e di esprimere la verità.
Non appena Konrad Stettbacher troverà il tempo necessario per mettere su carta il concetto di terapia primaria che ha sviluppato, saprà indubbiamente offrire anche gli strumenti adatti alle persone che cercano la loro realtà e non delle illusioni. Questa concezione ha in ogni caso aiutato me ad arrivare, dalle intuizioni e dai vaghi sospetti — affiorati in me grazie al mio spontaneo modo di dipingere — ai fatti inequivocabili, e di verificare ripetutamente questi fatti coll'aiuto dei miei sentimenti e del confronto interiore. Talune cose hanno trovato conferma, altre si sono palesate come abbellimenti di fatti in funzione della sopravvivenza. Però tante cose mi sono apparse in una luce nuova, inattesa. Perché anche la mia pittura si atteneva solo ai contenuti simbolici, era solo un modo vago per intuire cose celate nell'inconscio e non mi ha dato la certezza dei fatti realmente accaduti finché i sensi di colpa che m'erano stati instillati hanno continuato a produrre dubbi sempre nuovi per trasfigurare i miei genitori. Solo rimettendo continuamente tutto in discussione e verificando via via le mie ipotesi, quelle intuizioni hanno trovato un solido terreno su cui poggiare e hanno assunto contorni chiari.
Questo processo di approfondimento della conoscenza non si può mai dire definitivamente concluso, né deve esserlo. Però oggi posso permettermi in misura assai maggiore rispetto al passato di sapere cosa mi è successo durante l'infanzia. E a questo sapere debbo molto: mi sono liberata dei sintomi fisici di .' cui ho sofferto per certi aspetti fin da bambina, e mi sono sbarazzata delle paure che mi hanno accompagnata per tutta la mia esistenza.
Dopo aver applicato su me stessa, per quattro anni, il metodo frutto delle accurate riflessioni di Konrad Stettbacher, constato con sempre maggiore evidenza che si tratta della scoperta d'una legge che è insita nella natura umana, e il cui operare è da tutti verificabile. Contrariamente alla psicoanalisi, le cui teorie sono ancora completamente calate nella visione pedagogica dell'innocenza dei genitori, e contrariamente a tutte le altre forme di terapia che ho avuto fin qui modo di conoscere e nelle quali l'intento pedagogico continua a prevalere anche se in modo non appariscente, nella concezione di Stettbacher non c'è più alcuna traccia di intento educativo. Quello che conta è liberare la realtà del singolo individuo dalle scorie che vi sono state accumulate a causa di antiche ferite. Perché questo avvenga, occorre che queste ferite siano conosciute e trovate con l'aiuto di sentimenti in atto. Perché questo avvenga occorre che non si debba più assolvere chicchessia se si tratta di scoprire la verità, perché sono state appunto le menzogne che hanno impedito al bambino di vivere e di vedere. Perché questo avvenga occorre, infine, che il bambino un tempo ferito impari nel corso della terapia a servirsi delle facoltà di cui la natura lo ha riccamente dotato e di cui è stato derubato dagli adulti: fra le altre, quelle di esperire e articolare i propri sentimenti, di mettere in discussione e respingere prepotenze e accuse, e infine di avvertire i propri bisogni e cercare i modi per appagarli.
In sostanza, c'è un mondo intero di possibilità che si spalanca davanti alla persona, non appena non è più costretta a sfuggire la verità. Però la paura delle sofferenze e i blocchi mentali a essa connessi gli celano a lungo l'accesso a questo mondo. Ogni autentico bisogno è gravato e condizionato dalla paura, e questa paura — se tutti i ricordi immagazzinati parlano solo di punizioni e non di desideri esauditi — provoca irrigidimenti e forme di autopunizione anziché condurre all’appagamento.
Questo è stato anche il mio caso. Mia madre considerava i miei più naturali bisogni come fastidiose pretese. Mandata per il mondo con questo peso imposto alla mia coscienza, come avrei potuto avvertire ciò di cui avevo realmente bisogno? Come avrei potuto imparare a soddisfare questi miei bisogni? Mi era stato insegnato che erano pericolosi, perché il desiderio d'appagamento porta inevitabilmente alla catastrofe. E la catastrofe, il grande pericolo, era costituito dalla collera di mia madre e dalla scoperta della sua mancanza d'amore. Per questo ho cercato di reprimere con tutte le mie forze i bisogni di simpatia, calore e comprensione, per non dover vedere come mia madre si era in realtà comportata con me per conservarmi l'illusione del suo amore. Speravo: se non ho bisogni e sacrifico la mia vita agli altri, otterrò infine in cambio l'amore. Ma l'amore non si può guadagnare né con l'abnegazione né con l'attivismo. O lo si trova accanto a sé nella culla, oppure non c'è. Alla fine, ho dovuto ammettere che, nel corso della mia infanzia, questo dono non mi era stato dato.
A dirlo è semplice, eppure per quasi sessant'anni non ho avuto il coraggio di sentire questa realtà, benché ne fossi consapevole a livello razionale. Solo quando sono stata capace di sentirla, di provarla emotivamente, unitamente a tutti i ricordi connessi, mi si sono prospettate le possibilità sepolte della mia vita, o quanto meno quelle che non erano già state irrevocabilmente distrutte.
Se alla mia età ho trovato ancora aperta questa strada, allora è sicuramente e in ogni caso accessibile a una persona più giovane, a patto che voglia davvero confrontarsi con la storia delle proprie sofferenze, e non si accontenti di trovare dei surrogati al posto dei veri responsabili. In quest'ultimo caso è da presumere che i pazienti tenderanno a interrompere presto la terapia primaria. Si uniranno probabilmente a delle sette e continueranno a rovesciare i loro sentimenti di rabbia e di indignazione su dei sostituti. Accuseranno tutte le persone possibili e immaginabili, compreso il terapeuta, pur di risparmiare a ogni costo gli autentici responsabili delle loro lesioni — e cioè i genitori per come si sono comportati con loro, nella prima infanzia — e rimarranno loro tragicamente assoggettati.
Grazie alla sua precisione, la terapia di Stettbacher offre la possibilità di rintracciare le cause assolutamente specifiche dei traumi e di verificare esattamente, in concreto, le concezioni e le ipotesi che ciascuno formula, a livello razionale, sul conto dei Spropri genitori. Questo tuttavia non accade quasi mai senza ^'che insorgano delle sofferenze. Se queste sono insopportabili, [perché il riaffiorare dei ricordi dei reali maltrattamenti subiti è \ intollerabile, allora è comprensibile che singoli pazienti rinuncino al trattamento e rimangano arenati in fissazioni autodistruttive. Però, se si può e si vuole cogliere la verità specifica, i 'dolori si dissolvono e si dissolvono le paure su cui ci si fissava per effetto dei traumi riportati, che hanno, per tutta la vita, svolto la funzione di inibire il libero dispiegarsi della vita.
Questa liberazione dalle antiche paure mi ha aperto gli occhi su molte altre cose: sui muti segnali dei bambini, sui meccanismi sociali occulti che distruggono il loro animo, e sulle possibilità che esistono di salvarli — e, con loro, di salvare anche il nostro futuro — grazie all'esistenza e all'intervento di testimoni consapevoli.